Ci vuole smalto

Con grande piacere riproponiamo un bell’articolo di Fabrizio Gabrielli sul calciatore Franz Calì (Riposto, 1882 – Genova, 1949), già pubblicato nel 2014 sulle pagine del perento Archivio Flavio Beninati e nel primo numero del periodico di approfondimenti I Quaderni di Eccegrammi. Buona lettura!


Ci vuole smalto

di Fabrizio Gabrielli

Federico Maria, quando s’inerpicava da Piazza Tomasseo su verso il Bisagno braccio a braccio col cugino Enrico, le domeniche limpide per andare alla partita, sprizzava albionicità.
Bianca la camicia, bianco il cappello: bianco l’incarnato. Al campo non c’era che una modesta tribunetta, cinque o sei file di posti a sedere destinati ai scignuretti: il resto degli spettatori s’assiepava ai bordi del rettangolo verde, divisi dai calciatori da un filare di transenne. Verso Nord, la Caienna. La Caienna era l’arena dell’Andrea Doria, e prendeva il nome dalla città della Guyana; come se poi bastasse un nome, un’allusione, un ammiccamento a ricongiungere, foss’anche idealmente, i due mari. Il primo ad approdare alla Cayenna, raccontava Federico Maria, che di storia era appassionato sul serio, pènsa, è stato Cristoforo Colombo, zenése come noi, infatti. Avrebbe tifato sicuro Genoa, Colombo, dice Federico Maria, pieno di smalto. Alla Cayenna ci portavano gl’avanzi di galera a farsi passare i bollori, lì o alla vicina Isla del Diablo. Alla Cayenna era tutt’un gorgogliare d’animi esagitati, zanzare e afrori micidiali. Vi incubavano rabbia e malattie. Dalla Cayenna chi lo sa, se ci riuscivi, a uscirne vivo. Quando c’erano i derby, alla Caienna, alla Caienna zenese, sul Caffaro c’era chi arrivava a scrivere Preghiamo i signori spettatori di non aizzare i giuocatori onde non dover assistere ad un match brutale e scorretto. Perché su quel campo, poi, non s’inscenava un semplice testa a testa calcistico, ma l’atavica contrapposizione di classe, prolet da una parte, scignuretti dall’altra, e in gioco c’era mica solo l’autorevolezza fubolistica, il blasone, la gloria. Il Genoa lo tifava il padrone. L’Andrea Doria l’operaio. Vincere o perdere era assecondare o sovvertire i ruoli assegnati. I doriani indossavano una casaccca a quarti bianchi e blu, blu come l’onde o come certe sfumature del piombo quand’è fuso; bianchi come la biacca che producevano allo stabilimento dei Boero. La biacca la chiaman pure Bianco di Genova, se lo sussurravano sempre, gl’operai dello stabilimento. Perché Genova è bianca, aggiungevano di soppiatto: come le maglie del Doria. Mica rosseblù, infatti. (I padroni avrebbero contestato che no, la biacca è pure detta Bianco di Amburgo, di Londra, di Venezia, olandese, inglese, cosa blaterate, tornate a lavoro, belìn). C’era stato un tempo, lontano e fumoso, in cui la rivalità cittadina era mica così incandescente. Addirittura si vociava che James Spensley, il fondatore della sezione calcistica del Genoa Cricket Club, si fosse prodigato affinché dei giovanotti mettessero su una compagine competitiva in città, alternativa agl’imbattibili grifoni. Li aveva presi in simpatia, quei sovversivi. Su tutti, Francesco Calì, Calì lo dicevan tutti Franz, Franz il tedesco, anche se era nato a Riposto, in Sicilia. E non aveva mai giocato ai pirati, da ragazzino. Piuttosto, erano stati i pirati a giocare col suo destino, con quello della sua famiglia. Il padre commerciava in vino. Abitavano sulla spiaggia delle botti, che si chiamava così perché era lì che il nettare degli dei finiva dopo la vendemmia, in attesa che le navi piantassero le ancore in rada e inviassero un pontone a remi a ritirarle. Franz, i corsari, se li immaginava sporchi e con la barba lunga, i denti marci e le sciabole arrugginite, tipo quelli che infestavano le coste della Guyana, che se poi li arrestavano li trasportavano in catene alla Cayenna. C’era rimasto un po’ male, a vederseli arrivare coi baffi radi e le coppole incastrate in testa. Par lavano la sua lingua, i pirati, non poteva crederci. Come i Malavoglia quando la Provvidenza gl’era andata a fondo portandosi dietro Bastianazzo e tutt’i lupini, ai Calì non era rimasto nulla più, solo la disperazione di dover cominciare tutto daccapo. Dovettero emigrare, in Isvizzera, dove non c’era neppure il mare, figuriamoci i pirati. Dove tutti gl’inverni nevicava che Dio la mandava. E la terra fangosa imbiancata si faceva collame appiccicoso, come la biacca se la diluisci nell’olio di noce. In Isvizzera, se ne dovettero andare: a cercar fortuna. Franz aveva preso a giuocare al calcio: fortuna, per trovare, l’aveva trovata. Militava col Fortuna Zurigo, poi passò al Genève. Da Genève a Genova il passo è breve, solo due vocali e trecento chilometri, a dorso di mulo, per tornare a smerciare vino, per provare a vedere se si può giocare al fubò in Italia pure. Ed è là, a Zena, che dopo aver militato nel Genoa di Spensley, giust’in tempo per perdere una finale scudetto, quella del 1901, tre a zero contro il Milan, che Calì piglia in mano il suo destino. Fonda l’Andrea Doria. Quella squadra che più in là, liquefacendosi in un abbraccio di piombo fuso con la Sampierdarenese, avrebbe dato i natali alla Sampdoria. Guardatelo, lo svizzero Calì, scriveva il Caffaro, leggeva Federico Maria quand’era un fringuelletto: giovane, modesto ed entusiasta, del suo gioco, e della sua società. Veste di bianco e di blu, Franz. Fa il capitano, Franz. Ogni mattina si sveglia alle cinque, come allenamento giù di corsa dalle colline fino al mare, son dieci chilometri al giorno, ma lui è giovane, ed entusiasta. Si liscia i baffi, scuote i capelli sudati, e via. Calì è un terzino: devi averci i polmoni grossi e ‘l cuore empio, se vuoi fare il terzino. Devi imparare a essere modesto. E poi, averci smalto. Nella Pro Vercelli, invece, per dire, ad esempio: pure i terzini c’avevano la spocchia. È il millenovecentodieci, l’ultimo atto del campionato vede sfidarsi Pro Vercelli e Internazionale. Quello stesso giorno, il quindici maggio, la rappresentativa militare è attesa dalla Francia sui campi dell’Arena di Milano: si tratta dell’esordio assoluto di una selezione Nazionale italiana. I campioni provercellesi rifiutano la storica convocazione tricolore: abbiamo una finale scudetto, noialtri, si schermiscono. Vengono multati, duecento lire a paio di gambe, e squalificati per un anno. Perderanno pure la finale, dieci a tre, ineludibile legge del contrappasso. La maglia della Nazionale finisce sulle spalle larghe di undici pionieri increduli, non necessariamente campioni, ma di certo entusiasti. E modesti. De Simoni. Varisco. Trerè. Fossati. Capello. Debernardi. Rizzi. Cevenini I. Lana. Boiocchi. E poi Calì. Franz Calì. Che conosce le lingue, l’isvizzero Calì. Per questo lo fanno capitano. L’Italia vince sei a due, la Gazzetta dello Sport celebra Francesco detto Franz, che fece dar ragione a coloro che insistettero per averlo in linea, e questo dice tutto data la lotta che si accese intorno al fortissimo capitano dell’Andrea Doria, Calì che si conferma per calma, sicurezza, per la perfezione del giuoco il più degno a coprire il posto di capitano del nostro undici nazionale. Avrebbe indossato la fascia di capitano anche nella sfida prevista in Ungheria, contro i campionissimi magiari, undici giorni dopo, Calì. Per la seconda e ultima volta. Dopo la pesante sconfitta, sei a uno, avrebbe lasciato il posto, sconsolato. Non avrebbe mai avuto l’onore di indossare una casacca azzurra. Perché quei due primi match, poi, l’Italia, l’ha mica giocati in azzurro: troppo costose, le magliette colorate. Meglio spendere sette centesimi in meno, e accontentarsi d’una camiciola bianca. Bianca come la neve in svizzera. Come i bagliori del sole quando s’erige alto sui flutti di Riposto. Come la biacca che gli operai impastavano lassù, sulla collina di San Martino, negli stabilimenti Boero, sotto gl’occhi del commendator Filippo, che ogni tanto pigliava sottobraccio Federico Maria e vedi, tutto questo un giorno sarà tuo, gli sussurrava.


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