Confidenze a Gozzano

Con grande piacere riproponiamo un bell’articolo di Barbara Marras sull’amato poeta Guido Gozzano (Torino 1883 – 1916), già pubblicato nel 2014 sulle pagine del perento Archivio Flavio Beninati e nel primo numero del periodico di approfondimenti I Quaderni di Eccegrammi. Buona lettura!


Confidenze a Gozzano

di Barbara Marras

Lo scrivere comporta un senso di colpa. Non solo per l’egotismo che rivela: la scrittura è un delitto perpetrato ai danni della realtà, della vita, del proprio stesso pensiero. Scrivere è, già in sé, tradurre – e tradurre è tradire. Lo scrittore, l’artista in generale, sono tanto più in malafede, quanto più sono consapevoli di questo peccato originale. E tuttavia si tratta di un delitto necessario e trovo che il massimo dell’onestà consista nell’assumere su di sé il peccato, scontarlo nell’opera. Perché se l’arte è uno specchio deformante, lo è proprio per il fatto che la realtà vi si riflette non nella sua apparenza ma nella sua verità. Così l’arte modifica la realtà e, dunque, la realtà non può essere interpretata che culturalmente, attraverso le sue incarnazioni nell’arte, attraverso le metafore in cui l’uomo dice sé stesso e si trascende di volta in volta, di opera in opera – ma, siccome il processo è infinito, potremmo anche dire: di illusione in illusione. Cos’è più illusorio? Scegliere di osservare il mondo (da un punto di vista opportunamente dissimulato) o fissarne il riflesso (fino a riconoscersi, confusi tra le varie immagini rivoltate sulla superficie dello specchio)? Naturalmente è possibile accettare sé stessi, abbracciarsi, gettarsi nella mischia, divorare la vita nella sua totalità, nella sua assurda immanenza e nella sua vertiginosa trascendenza. Fico. Io però amo Gozzano. Il che, più o meno, vanifica la mia premessa (o no?) il problema di Gozzano essendo la vita e non la scrittura; il suo cruccio essendo l’incapacità a vivere e sentire se non attraverso il filtro della cultura e della tradizione letteraria. Non ha il tempo, Gozzano, di tentare altre esperienze. E non avendo il tempo ha il rimpianto – ma questo rimpianto è proprio sincero? A poter scegliere, cosa farebbe? Rinuncerebbe alla sua musa? Sposerebbe davvero la signorina Felicita? Esiste la signorina Felicita? No che non esiste. Entrata nel poemetto non può che corrompersi e fuori dal poemetto è inattingibile. Non è l’occhio di Gozzano che fa questo a Felicita. Ma è l’occhio di Gozzano che vede questo per noi, è la sua voce che ci dice su Felicita e su noi stessi questa verità che tale non pretende di essere, è il suo sorriso rassegnato e malinconico che ci dice quanto dolorosa questa verità sia per lui. Eppure lui se ne assume la responsabilità: è colpa sua. E’ colpa della malattia se deve andare. E’ colpa del suo sguardo se lui ha già cominciato a intravvedere la crepa e fugge. Non c’è proprio niente che non sia illusorio. Sarà pazzo Gozzano a squarciare il velo proprio mentre ci si nasconde dietro? Sono assurdi il suo tentativo di sparire dentro le parole mentre ci mostra il percorso che le corrompe, il suo desiderio di figurare nel quadro di cui ci ha venduto il falso? Come interpretare il silenzio dell’ultimo breve periodo della sua vita? E’ talmente assurdo l’esserci, quanto naturale e logico il non esserci e io proprio non so se l’universo sia emanazione di uno spirito che tutto dissolve e riassorbe e ripartorisce. Tendo a pensare di no – a meno che questo spirito non sia il tempo – ma una cosa la so: Felicita può anche non esistere e intanto ognuno ha la sua (decisamente l’esserci fa la differenza, per me. Le pretese di oggettività mi lasciano sempre perplessa). Gozzano, frammisto ai rimpianti e ai desideri, qualche rimorso lo prova e quasi se ne conforta: “eppure non sono cattivo, / non sono cattivo, se qui / mi piange nel cuore disfatto / la voce: « che male t’ho fatto / o Guido per farmi così? » “

In effetti, la situazione è patologica: la cosa e l’immagine soffrono dello stesso male, sono inautentiche entrambe, sono l’una lo specchio dell’altra e si corrompono vicendevolmente. E questo genera rabbia e frustrazione nel poeta che solo a posteriori prova pietà, quando le sue stesse parole lo accusano. La chiudo qui, siccome non ha certo bisogno, Gozzano, di essere rispolverato da me – ma mi riservo di dichiarare il mio amore: Che fortuna, Guido, non potendo essere uomini, essere qualcosa di meno e qualcosa di più: che fortuna essere poeti! Regalare un senso a ciò che non ne ha, uno scopo a se stessi, una dignità, un posto, magari defilato: da quale assistere, decodificare e ricodificare l’esistenza, comprendervi il proprio sguardo. Che fortuna, non potendo trovare una cura o un nocciolo segreto e sfuggente di salute, di salvezza, in ciò che è insanabile, poter cantare l’incongruenza, la falla, l’impossibilità. Ah! Con la tua voce! Non potendo arrestare il tempo, nel suo erodere e trasformare ed infine votare ogni cosa all’oblio, poter accettare questo destino! Che fortuna poter cogliere – col tuo sguardo, Guido! – lo sforzo di concretezza della vita: tanto più commovente, quanto più inutile e goffo.

Che fortuna, non avendo diritto di piangere, poter sorridere, Guido, col tuo sorriso! E che strazio, sapessi, non avere un posto né una voce. Non essere donne e uomini da vivere nel mondo. E non essere poeti per vederlo, per crearlo. Essere così confusi da non sapere quale mondo sia vero. Da non sapere se credere a te, a quelli come te, o agli altri – guardarli muoversi come se sapessero qualcosa che ci sfugge. Essere ciechi. Non avere nessun senso sicuro cui affidarsi. Non potersi trovare in questo stordimento, per muovere un passo, per allungare una mano in una direzione che si possa dire propria, con un intento che ci corrisponda. Non avere un sé, anche labile, da adempiere, da rivendicare, anche debolmente. Che strazio sentire e non sapere! Non avere un nucleo dal quale ergersi o ritrarsi. Dal quale sporgersi e invocare: un senso! Un senso! Un sentimento di sé per raggiungere il mondo, la vita! Ma che bello, che fortuna, ritrovarti! Dopo tanto tempo. Innamorarsi di nuovo di te.

In cerca di G.G

Il libro da quando l’apersi
mi chiama, l’occhio ti cerca
come altro occhio Petrarca
Non sei tu in questi versi?
Eppure mi pari sincero
Con l’indice il cuore s’inarca
e quello che dici so vero.
Percorrere il sentiero
da te disposto giova?
O forse solo ti trova
chi dal sentiero si parte
per addentrarsi nel folto
intrico della tua arte
di che ti fai maschera al volto?
O è meglio cercarti sul margine
bianco di queste pagine
da dove tu ancora osservi
gli uomini protervi
e miseri o giulivi
invano e invano vivi?
Amico delle crisalidi
di ciò che si trasforma
lasci beffardo in quest’orma
le spoglie tue i resti pallidi?
Lo spirito s’invola
che informò la parola
con sue ali di farfalla
e si dilegua l’inganno
della favola bella
e cessa infine l’affanno?
Ancora che sogni mi pare
e ti lascerei sognare,
io di te curiosa,
al ritmo sapiente del verso
Ma ti domando una cosa:
lo spirito all’Universo
od alla Parola hai affidato?
In ultimo ti sei perso
oppure ti sei trovato?
E’ vero che mentre le annunci
alle Farfalle rinunci
fiero con gesto svagato?
Per mano alla Natura
non ti riuscì di svanire
entro la Letteratura
Piuttosto che morire
a tutta la vita futura?
Che ti sembrò vana anche quella
sola consolazione?
Era anche quella illusione?
Spiato dalla sorella
sua più vera e più forte
tu invocavi l’Amore.
Ah! Chi ne ha colmo il cuore,
credi, invoca la Morte!
Ma il ritmo mi commuove
del tuo ragionare. Le prove
m’avvincono della tua mente
all’ostacolo del cuore.
M’assolve felicemente
il tuo gaio stupore
della vita, del mondo
entrambi senza scopo.
Immeritevole in fondo,
mi sento lusingata
da ogni tua confessione
sebbene sempre dopo
scopra d’averla ascoltata
soltanto per errore
o è forse un’impressione?
Io pure ho il mio dolore
Eppure, beata Illusione!
Più dolce m’è l’imperio
pur grave del Desiderio
se la più bella è davvero
L’Isola non trovata
Ti cerco e sono grata
a te del tuo mistero
E quando tristezza incombe
cercarti non è vano
oh coso con due gambe
detto guidigozzano!
Ah gelido sofista!
– invero non cattivo –
ingenuo è quel che scrivo?
Io me ne andrò non vista
senza lasciare il nome
vuoto su una rivista:
io sono proprio come
il commesso farmacista.
(Barbara Marras)

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