Preghiera per l’imbecille

Il 27 marzo 1913 sulla rivista culturale La Voce fondata da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, apparve uno scritto di quest’ultimo, che riproponiamo qui di seguito.

A differenza del fraterno amico Prezzolini, Papini (Firenze, 9 gennaio 1881 – Firenze, 8 luglio 1956) fu una figura molto controversa nel panorama letterario italiano della prima metà del XX secolo, per via del carattere “spigoloso” che lo contraddistingueva, ma anche (e forse soprattutto) per aver aderito al regime fascista — come, d’altronde moltissimi altri letterati e artisti che, però, verranno riabilitati nel dopoguerra. La figura di Papini, invece, sarà ostracizzata dall’apparato accademico e finirà relegata ai margini della scena.


Preghiera per l’imbecille

di Giovanni Papini

Lasciate che sgorghi dal mio cuore di lupo sentimentale una preghiera che troppe volte è salita ai miei labbri in questi giorni. Lasciate ch’io preghi, almeno una volta, per tutti gli imbecilli del mondo!

“Dieu m’a fait un coeur, à moi comme a tous autres, hélas! Il s’est amusé, le Seigneur, à mettre du feu dans la glace“. Son costretto a odiar tante cose che nel mio petto s’è formata una smisurata provvista d’amore e non so come spenderla: perché non dovrei dedicarne un buon dato a coloro che non possono amarmi?

Non è proibito da nessuna legge aver pietà dei felici. E voi, imbecilli dell’anima mia, siete felici, tremendamente felici. La vostra felicità è tale che fa spavento ed io tremo per la vostra vita futura, perché il cielo non fu promesso ai beati della terra.

Compianti sono, e spesso, ricchi, re e innamorati e nessuno dovrebbe compianger voi che siete ricchi di sicurezza, re assoluti dell’opinione, innamorati senza rivali di voi medesimi? Non dovrà nessuna anima delicata implorare per voi una favilla di questa fiamma che volteggiò sulle teste dei discepoli dopo la Resurrezione?

Troppo carico di vergogna porterebbe ne’ secoli la nostra età se nessuno pregasse per voi. Non vivrei tranquillo neppure un giorno se non venisse da me, proprio da me, un atto di contrizione, una pubblica prova di affetto. Non badate alle apparenze, imbecilli diletti. Io non vi disprezzo e neppure vi odio. Mi sforzo di considerarvi come fratelli.

Fui come voi siete e forse qualcuno di voi arriverà dove sono. Voi siete morti all’intelligenza come io son morto all’imbecillità. Non dovete troppo gloriarvene, come io non mi glorio.

L’imbecillità ha del buono: dà la pace con sé stessi e con gli altri e in più la pace pubblica, privata e spirituale. È un bene in sé, un bene universalmente cercato e lodato e che può tenere il posto di molti altri. Ma fossi in voi non mi glorierei neppure di non comprendere. Vi assicuro che anche l’intelligenza ha del buono e che il capire lucidamente e profondamente e vedere nuovi rapporti tra le idee e scoprire i fatti sotto i verbi dà tale gioia che non so paragonare a nessun’altra.

Vi sono, certo, i tormenti che accompagnano ogni sforzo; vi sono le paure delle sorprese impensate; vi sono i pericoli delle idee fisse, degli entusiasmi, delle frenesie… Son tutte cose che voi, avventurati imbecilli, non avete conosciuto nella vostra catalogata esistenza e non vi auguro di cascarci dentro, specialmente se non avete sulle spalle una di quelle atlantiche teste che possono sopportar un mondo intero.

Ma, se la voluttà dell’intelligenza ripaga ogni cosa: se sapeste, che siamo felici anche noi guardandovi negli occhi, ascoltando i vostri discorsi, leggendo i vostri articoli e i vostri libri! (Giacché gli imbecilli non sono gli ignoranti, quelli che nulla pensano e fanno onestamente la loro parte nella terrestre officina. Gli imbecilli sono il pericoloso ponte di passaggio tra il bruto e il genio e si occupano di tutto, ma più spesso e volentieri di “arte e letteratura”.)

Voi non avete un’idea del nostro godimento e quando arriverete a invidiarcelo non sarete più imbecilli. Giacché voialtri siete felici appunto perché non conoscete la nostra felicità, perché non concepite che vi possa essere altra felicità al di fuori della vostra soddisfazione infingarda, del vostro sano equilibrio intellettuale. Non soffrite perché credete di posseder tutto di già. Siete tranquilli nella vostra morte perché non immaginate che vi sia un cielo sopra le lastre bianche de’ vostri cimiteri.

Quando sentite dei passi sopra le lapidi o ascoltate un canto lontano di cui vi sfuggon le parole, credete che si tratti di gente che per dispetto non voglia farvi dormire e non supponete neppure che ci siano altri uomini al disopra di voi, in mezzo alla luce del giorno, che amano le foglie degli alberi, i lampi del sole e degli occhi — e non vi conoscono.

Perché non dovrei aver pieta della vostra sorte? Che m’importa se riderete prima degli altri di questo puro e platonico amore? Voi siete necessari all’umanità ed a noi stessi e ci permettiamo di esservi riconoscenti. Senza voialtri non esisterebbe ombra per la nostra luce; non ci sarebbe punto di riferimento per la nostra misura; non ci sarebbe pietra di paragone per il nostro valore. Senza voialtri ci mancherebbero i più grandi conforti della vita e tutta l’opera nostra, quando non fosse circondata dalla vostra disapprovazione, ci sembrerebbe scipita e banale come un elogio. Abbiamo bisogno di voialtri.

Voi siete le vittime del nostro piacere e il sottosuolo della nostra grandezza. Siete affondati perché possiamo emergere; vi abbassate perché possiamo salire. Permettetemi di pregare per l’anima vostra, imbecilli convinti e innumerabili. Quando vi contemplo seduti alla tavola di un ben illuminato caffè — le vostre facce hanno bisogno di molta luce — quando vi guardo per le strade e per i teatri, nelle botteghe e nel tranvai, una grande e invincibile tenerezza mi assale e dura fatica a reprimere la tentazione di buttarvi le breccia al collo e di baciarvi le mani. In quei momenti la mia pietà è realmente infinita a debbo nasconderla sotto la più brutale durezza per non umiliarvi più del bisogno.

Quando penso a quel che vi manca e vi mancherà per tutta la vita, quante emozioni non sentite; quanti aspetti delle cose non scorgete; quante verità non afferrate, quanta bellezza vi sfugge e quanto coraggio vi fa difetto, io, che non ho le lacrime facili, avrei sul serio voglia di piangere. Io so che passate attraverso il mondo senza intuirlo nella sua diversità e solidità; senza fermarvi a contemplare quelle minime cose che son le grandi dell’emisfero della poesia; senza penetrare né l’anima delle vostre donne né quelle de’ vostri compagni e neppure la vostra, la vostra infinitamente piccola anima. Io so che il genio può passarvi accanto, vivo, in carne ed ossa, in parole e in ispirito, e che voi non lo vedete, non siete capaci di vederlo, di avvicinarvi, di parlargli, di andare con lui, di lasciar padre e madre e ogni trascurabile bene per seguirlo all’inferno dei suoi proibiti piaceri.

Io so che quattro, cinque, dieci idee vi bastano per tutta la vita, vi servono per tutti gli usi quotidiani, per il giorno e per la notte, per l’amante e per il parrucchiere, per parlare e per scrivere, per alzarvi la mattina e per andar a letto la sera e che nel vostro cervello, senza finestre dalla parte del cielo, non hanno diritto d’ingresso che alle verità diventate luoghi comuni e all’idee che a forza d’uso son fatte imbecillità. Io so, e lo so con matematica certezza, che pensate coll’altrui pensiero, che vedete cogli occhi degli altri, che giudicate col giudizio degli estranei e che le vostre ammirazioni e i vostri entusiasmi vanno soltanto a quelle cose che qualcuno di voi timbrò ripetutamente col sudicio bollo della fama più infame.

Io so tutto questo — ed altro ancora che non dico per dignità — e non dovrei commiserarvi sinceramente dal profondo del cuore? Non crediate ch’io sia cattivo e che mi eserciti nel sarcasmo. Vi amo perché siete il contrappeso necessario dei pochi e la mia pietà è senza nessun sottinteso. E vi amo, vigliaccamente, anche perché ho paura della vostra vicinanza. Vengono nella mia vita ore tremende in cui mi sembra di viaggiare con pochi ariani esploratori in mezzo a mille tribù di selvaggi, nel centro di un continente dove il feticcio è tutta la filosofia e il cannibalismo l’ultima parola dell’amore.

Ma questa atroce sensazione non dura. Siete inoffensivi anche nella crudeltà. I vostri visi stupefatti ci fanno bene: sono richiami perpetui alla vigilanza, a quello sforzo verso la grandezza ch’è il nostro solo dovere. Siete estranei alla poesia — come si sente bene! — e perciò mancate d’immaginazione e non sapete i segreti delle torture cerebrali. Le vostre parole — anche quando dileggiano e negano — son l’accompagnamento necessario del nostro canto di guerra e ci spronano al pericolo della mischia più degli ordini brevi dei nostri capitani. Ci fate tanto bene senza volere!

Che sapore ha il vostro disprezzo: come agita ed eccita il vostro odio! Disprezzateci e odiateci sempre più, con più foga, con più costanza: il vostro biasimo è la nostra salvezza e la vostra esecrazione il filtro che ci rende più giovani. Siamo qui pronti a ricevere i vostri colpi; aspettiamo i vostri sputi come aspersioni benedette e invochiamo le vostre ferite come pegni di redenzione.

Permettetemi dunque di pregare anche per voi, imbecilli preziosi e desiderabili, almeno una volta. Io non so quali sono le parole che posson farvi piacere e le grazie che ricercate ma lodo e celebro il Signore perché vi dia quel che domandate e perché tutti i vostri desideri siano speditamente esauditi.

Meno uno, però: che la vostra beata imbecillità si tramuti in affannosa intelligenza. Come potrei, in tal caso, invidiarvi con lo stesso battito del mio cuore incoerente? Non diventereste simili a me e perciò — in un certo senso — rivali ed avversari? Così come ora siete apparite perfetti, vero sostegno dell’umanità calzata e vestita e ornamento indispensabile delle civili città. Se i saggi sono il sale della terra voi siete ciò che ha bisogno di essere salato e il sale perderebbe ogni valore senza la vostra insipidezza. Continuate, seguitate, insistete, ostinatevi nell’imbecillità; non tradite il vostro destino e la nostra speranza!

In questo momento siamo perfettamente tranquilli, possiamo quasi vivere: sappiamo bene che guardate e non sapete vedere; che parlate e non dite nulla; che ascoltate e non intendete; che urlate e nessun’eco risponde; che camminate e rimanete sempre nello stesso paese; che tacete e non acconsentite; che tentate di uccidervi e risuscitate. Questo spettacolo sarebbe acutamente doloroso se foste coscienti di tutte codeste impossibilità.

Ma la vostra stessa imbecillità — sorgente di tanti guai — è quella che vi salva. Voi siete certi e baldanzosi come non sappiamo né osiamo esser noi; siete talmente soddisfatti del vostro giudizio e della vostra perspicuità che non v’è soffio di dubbio o colpo di smentita che faccia tremare i vostri piedi di creta: siete radicati nel seno della loro sorella, confitti giù nella mota, nella profondità terrosa, vicini alle gallerie delle talpe e delle savie formiche. E le tempeste passano sopra i vostri capi senza sciuparne la pettinatura.

E per questo, perché siete così felici nella vostra infelicità e perché godiamo tanto nel vedere la vostra innocua infelicità, vogliamo elevare una preghiera per la vostra perpetua conservazione. A tutti gli sciocchi, scemi, stupidi, zucconi e imbecilli dell’universo, salute e immortalità!

Giovanni Papini

(La Voce – 27 marzo 1913)

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