ROMANZO ESTEMPORANEO A PUNTATE
di Tancredi Quienti
CAPITOLO I
Domenica 25 Febbraio 2024
* * *
Ritrovandoci a viver relegati in una casa austera e isolata senza giochi ma una grande biblioteca i miei cugini ed io siamo cresciuti tra quadri di antichi e scaffali polverosi e il mondo lo abbiamo conosciuto a forza dei racconti altrui, sui loro libri, sui loro quaderni e i loro diari. Nel giardino non vi era che un’altalena che dovevamo fare a turno e un prato col laghetto. Per il resto il bosco minaccioso su un versante e sull’altro le aiuole geometriche dello zio delimitavano il nostro mondo all’aria aperta. Non ci restava che la lettura per inventarcene di nuovi.
Il nonno dello zio era stato economo del duca e l’aveva accudito negli ultimi anni della sua malata solitudine. Così che questo lo lasciò erede di tutto, anche dei titoli, che però non valevano già nulla. Ma i possedimenti erano tanti e quello ne accumulò tanti altri così che al figlio (cioè al padre dello zio) lasciò l’intera regione tra i monti e il mare. E questo al figlio suo (cioè lo zio) lasciò nient’altro che la biblioteca e quella casa. Ma anche l’odio della gente che il padre aveva rovinato.
Non sapemmo mai come ci fosse zio, né come fossimo
cugini dato che non ci venne mai spiegato. L’unico interesse che aveva a cuore era la buona salute dei suoi fiori e dei suoi libri. Mai un amico né una donna vennero a trovarlo. Solo la vecchia in cucina e il marito a potare i fiori. Alle pulizie dovevamo pensarci noi bambini. Questa fu la mia infanzia e pure la mia adolescenza in quella casa.
* * *
Ora che lo zio è morto e tutto è finito, che ho vent’anni e vivo altrove, mi piace quando posso tornare in quella casa e viverla che ora è vuota ma conserva ancora le mie memorie. Anche se spesso tra di loro contrastanti. Non più il rigore delle aiuole ma fiori che crescono spontanei e il bosco aperto in un sentiero non è più un muro ma natura da godere.
Agnese ed io siamo gli unici dei cugini a frequentarla ancora, quella casa. Io, come ho detto, per riviverne i ricordi, per spiegarmi certe cose che continuo a non capire, ma soprattutto per la biblioteca, per ricopiare prima che siano venduti all’asta, quei manoscritti che tanto ci affascinava leggere; Agnese invece per malinconia, perché non ha nient’altro. O, forse, anche per amore. Perché il giovane messo a custode mi sta sempre addosso come un cane se lei non è qui, mentre non se ne vede l’ombra quando c’è lei. Un saluto veloce e subito spariscono. Imboscati chissa’ dove finché non è ora di chiudere la villa. Com’è successo pure oggi.
La casa è cambiata assai in questi anni. È stata spogliata del mobilio quasi del tutto e di tutti gli oggetti di valore. Si vede però che i libri non interessavano poiché, tranne quelli antichi e quindi di valore, sono ancora lì, ammucchiati alla rinfusa sugli scaffali più bassi. Li avranno spostati per guardare dietro sperando in un tesoro nascosto.
Hanno portato via anche i quadri di cui però restano gli aloni alle pareti. Dove c’era una scena di caccia sullo stipite della porta principale adesso si legge un motto visconteo (chissà perché!).
“Vipereos mores non violabo”
(Non violerò le usanze del drago)
L’avessimo scoperta da bambini questa scritta mi chiedo cosa sarebbe stato delle nostre vite. O almeno della mia.
CAPITOLO II
Domenica 3 Marzo 2024
* * *
Santa Agnese. Anche oggi mi tiene lontano l’impiccio del custode. Chissà dove si saranno infrattati, oggi che c’è una nebbia che non ti vedi i piedi. Tanto fitta come non l’avevo vista mai. Ma poco importa perché a quei due basta stare appiccicati l’uno all’altra e poi qui in casa si sta benone. Infatti me ne sto seduto da ore a leggere e ricopiare libri. Ce n’è uno che promette bene e che non è un libro vero e proprio ma semmai un dattiloscritto. Che però è rilegato per bene come un libro vero e probabilmente è uno scritto dello zio. Tiro a indovinare, non saprei dire di chi altri, sennò. Diversi fogli sono vaganti e scommetto che ne manca più d’uno. Ad occhio e croce direi proprio di si. E molti sono pure quelli rovinati. Cancellature, macchie d’inchiostro, di umidità, di caffè forse, tarme li rendono a tratti illeggibili. Questo è ciò che sono riuscito a ricopiato fin qui:
Il cielo si volgeva al plumbeo e i primi spari dal bosco lì a fianco della strada annunciavano la stagione della caccia mentre l’orologio del campanile segnava le sette e il vecchio signor Del Castello, avendoci buttato un occhio, subito affrettava il passo, angustiato. Angustiato, anzi avvilito, dall’idea di essere in ritardo. L’ultima cosa che avrebbe voluto, quel povero relitto d’uomo, era che il signor Boi lo giudicasse per quello che non riteneva essere, un villano al pari dei tanti altri villani giù in paese. L’avrebbe declassato alla stregua di quei bifolchi e l’idea lo terrorizzava. Teneva troppo alla stima di Emanuele Boi, Del Castello.
Dal canto suo, però, Boi, tenendolo già in scarsa se non nulla considerazione, era facile che avesse persino scordato del loro appuntamento e che adesso fosse alle prese con qualcuna delle sue inutili attività serali. Una era la lettura del giornale quando le notizie erano ormai storie vecchie. Un’altra era sedersi al centro della serra tra le piante esotiche, di nessuna delle quali conosceva neppure un nome volgare. Una foresta di piante in vaso a cui un giardiniere molto zelante e molto ben remunerato prestava le migliori attenzioni. Boi si limitava a sedercisi in mezzo, anzi distendersi sulla sua sdraio di legno e tela a strisce e guardarsi attorno sorseggiando una tisana o, meno spesso, un qualcosa di forte, che non era mai whisky né vodka, che non amava per nulla. Poi lasciare che un vago, dolce torpore gli carezzasse le carni stanche e s’impadronisse dei suoi sensi trascinandolo “attraverso un dedalo di caverne e nebulose fino a giungere lì dove i papaveri di Morfeo sono più rigogliosi” (sue parole).
Poi ce n’era una terza di attività inutile serale che Boi alternava alle prime due senza metodo ma anche più raramente, giacché era la più impegnativa. Era quasi un dovere. Passare in rassegna le collezioni che per le ultime quattro generazioni erano passate da padre in figlio ogni volta grandi, finché giunte nelle sue mani inoperose iniziarono a deperirsi. Non uno svago ma, anzi, un vero cruccio, una responsabilità di cui avrebbe fatto a meno, non fosse stato che ne andava della sua reputazione tra quelli della sua schiatta . E poi l’onore del nome che aveva ereditato insieme alla casa e tutto il resto, che era tanto.
Perciò s’era affidato all’energica intraprendenza d’un giovane tuttofare a cui aveva delegato la responsabilità della collezione, insieme a diversi altri fastidi che facevano della sua vita una via crucis. Confidava ciecamente nell’onestà e nelle capacità di questo giovane intraprendente che ormai lo serviva da quattro anni, essendogli stato raccomandato da persone altrettanto fidate, ed il cui nome era Enea.
Dal canto suo, però, Enea aveva altri piani per la propria vita e quella era solo un’occupazione temporanea che, così tanto ben remunerata come era, tutti i mesi gli permetteva di metter da parte una bella somma. Ma lui si vedeva già proiettato in orizzonti ben delineati di cui solo lui conosceva i paesaggi dato che non ne aveva mai fatto parola a nessuno. Era gagliardamente giovane (se a ventiquattro anni lo si è ancora), di aspetto discreto, di cuore buono e tutto il resto, ma era anche molto serio soprattutto nelle cose serie come la propria vita. Cosa che Boi aveva capito di lui sin dal primo momento. S’era subito fidato per via dello sguardo da cui traspariva tutto questo insieme di cose. Delle sue origini si sapeva poco o forse nulla ma a nessuno, e men che meno a Boi, era mai interessato di saperne qualcosa di più di ciò che lui stesso avesse voluto raccontare.
Boi l’aveva messo ad alloggiare in un casino vicino alla serra dove una volta alloggiavano gli ospiti di riguardo. Nelle ore di riposo, Enea, oltre a leggere tanto e scrivere tanto di più, si dedicava all’allestimento di quello a cui ci si riferiva come il terracquario. Un mondo in miniatura che di mese in mese cresceva insieme all’entusiasmo che era riuscito a suscitare in Boi.
[FOGLIO MANCANTE]
Il signor Del Castello, un giorno Boi ed Enea l’avevano portato a vederlo, il terracquario, ma non sembrò capirci molto. Anzi sembrò non raccapezzarsi per niente, credendolo un plastico dei dintorni e del paese. Di come la chiesa si trovasse in quel punto anziché all’altro capo della strada o come la casa di Boi fosse tanto vicina al bosco. E quella rocca lì in mezzo, poi, non c’era proprio, secondo lui. Il signor Del Castello, insomma, non era un grande osservatore, diciamo così. Boi l’aveva guardato con una certa compassione per nulla inaspettata ma piuttosto sincera. Con un’espressione schietta per così dire, in un viso per un attimo affrancato dai doveri delle maschere, in cui per un attimo si poterono vedere i suoi veri occhi e il suo vero viso, così serio e sobrio come la natura glielo aveva costruito. Quindi aveva allargato le braccia e dondolando il capo s’era lasciato scappare una frase scortese, “La Storia, si sa, non ha scolari”, che sottintendeva qualcosa che Del Castello non poteva afferrare (e neppure io, a dire il vero). Ciononostante sentì che si trattava di un ammonimento di cui presto o tardi, se destro abbastanza da condurre il gioco nella giusta direzione, gli sarebbero stati forniti i dati per comprendere.
NOTA – Certe storie, mi rendo conto, sono più complicate di altre, se non nei fatti almeno nel trovare la formula e le parole giuste per la loro esposizione; e questa è una di quelle. Qui bisogna procedere per gradi e con cautela misurare le parole. E non divagare è d’obbligo. Ciononostante non posso esimermi dal far presente a chi legge che quello stesso giorno era accaduto un fatto tremendo che aveva scosso non poco il povero Del Castello. Si era infatti presentato in casa del Boi con fare più remissivo del solito; cappello di feltro marrone tenuto stretto tra le mani, ricurvo su se stesso, occhi bassi spersi nel vuoto e assai meno loquace del solito.
Dicevamo, dunque, del signor Del Castello Giovanni. Professore di scuole medie, pensionato del ministero della pubblica istruzione, che non avendo alcunché con cui occupare il tempo e avendo, nonostante l’età avanzatissima, ambizioni di elevarsi di rango, quel giorno si recava a trovare il signor Boi con cui aveva un appuntamento.
Appuntamento a cui stava giungendo in ritardo (come aveva appena appreso dall’orologio sul campanile). In un gran ritardo di quasi quaranta minuti. E, sopraffatto da un forte senso di vergogna, affrettava il passo malgrado le delicate condizioni in cui versava il suo vecchio cuore. Dunque torniamo al punto. Dicevamo dei nuvoloni antracite, che avanzavano cupi cupi e silenziosi come guerrieri sioux mentre qualcuno sparava un colpo di fucile lì vicino.
Era il 19 di settembre di un anno indefinito. L’aria era fresca ma la strada ancora molto lunga e nell’ultimo tratto alquanto impervia, come ben sapeva il nostro eroe in pensione che ansimante e con una mano pressata sul cuore, affrontò l’ultimo tratto di salita più in fretta che poté giungendo al cancello della villa corto di fiato e paonazzo. Prima di suonare il campanello si soffermò a cercare le parole giuste per giustificare il ritardo (per esser perdonato era pronto a tutto) poi, mentre stava per tirare il cordino del battaglio, ritrasse la mano e chiese l’ora ad uno che passava.
– “L’orologio della chiesetta è fermo da che hanno mandato via il parroco. Che non lo sapeva, professore? Saranno due anni almeno! È vero che anche quello due volte al giorno segna l’ora esatta ma sono le cinque e mezza in punto. Che va a trovare il signor Boi?”.
– “Ah che sollievo mi sta dando… Si vado a trovarlo”.
– “Bella casa, si dice che dentro ci sono oggetti di gran valore. È vero?”.
– “Si, è vero. Vedesse le robe che c’ha li dentro, il signor Boi!”.
– “E.. beato lui! Non lo si vede mai in giro, che tipo di persona è?”
– “Esce di rado, infatti, per quello che ne so io. È una persona molto per bene e di grandissima cultura.”
– “Beato il signor Boi, allora! La saluto professore, le auguro una buona serata di cultura.”
L’accento malcelatamente ironico con cui il viandante prese commiato fece incontrollatamente sgranare gli occhi del Del Castello che se ne rimase lì come un allocco a cercare la soluzione alla sciarada, poi si sedette sul muricciolo ad attendere che si facessero le sei, cosa che gli risultò alquanto impegnativa. Mezz’ora è lunga il doppio per uno che non sa intrattenere se stesso.
Alle sei in punto il giovane Enea uscendo dalla serra l’intravide e prima che quello arrivasse a suonare il campanello fu ad aprire il lucchetto e lo condusse in casa, al salottino del primo piano dove Emanuele Boi pareva attenderlo leggendo il giornale sottosopra.
– “Come procede il tuo terrario?” – Chiese al giovane mentre salivano le scale.
– “Bene, Professore. È sempre più grande. Il signor Boi ha voluto aggiungerci un lago con una isola al centro. E sospetto abbia già delle altre ideuzze.”
– “Me ne compiaccio. È un gran bel lavoro quello che state facendo! Mi darete la gioia di vederla questa isola?”
– “Certamente, professore! Se non oggi stesso, sicuramente la prossima volta che verrà a trovarci. Lei, piuttosto… come è andato l’intervento? La trovo in forma, quindi immagino sia andato tutto liscio.”
– “È andato tutto bene, anche se proprio in forma non lo sono ancora. Mi ci vorrà un po’ di tempo. Ho dei dolorini che mi danno il tormento, sai? Soprattutto al mattino al risveglio e la sera prima di coricarmi. Chissà perché!”
– “Si riprenderà presto, professore, lei ha una buona tempra, da uomo di altri tempi!”
Il professore gli sorrise mentre faceva gli ultimi gradini. Poi finalmente poté mettere le ossa a riposare su una poltrona in cui sprofondò fino quasi a scomparirci dentro e perciò dovette faticare a tirarsi su e sedersi sul bordo. Poi, appoggiandosi sulla curva del bracciolo riempì i polmoni prima di rompere il silenzio.
[LA LUNGA CONVERSAZIONE CHE SEGUE HA MOLTI PUNTI INCERTI CHE DEVO ANCORA APPROFONDIRE]
– Eccoci qua, carissimo signor Boi, finalmente. Non vedevo l’ora di continuare la nostra conversazione, sa? Da dove iniziamo? Come vuol procedere?
– Bé direi che potremmo riprendere da dove avevamo lasciato. Non crede, professore?
– Si, in effetti direi che ha ragione.
– Il problema, semmai, è di ricordarci dove avevamo lasciato.
– E già, quello è un problema.
– È passato un mese…
– Quasi due! La sola convalescenza è durata di più d’un mese. Trentasei giorni in quel letto d’ospedale… E non mi sono ancora ripreso del tutto, come vede.
– Avrei detto il contrario, la ritrovo in forma smagliante. E me ne compiaccio.
– Ma si, ha ragione lei e la ringrazio. Sono proprio un lamentone. È la mia indole di rompiscatole. Infatti sto proprio bene ora che ci penso, devo ammetterlo. Hanno fatto un miracolo quei dottori.
– Gradisce qualcosa da bere prima di iniziare? Non ho alcolici, però.
Poco importa sono astemio anch’io e anche se non lo fossi… devo riguardarmi. Quella brocca d’acqua farà al caso.
– Ah già, allora non ci resta che… iniziare. Sediamoci vicino la finestra. In quell’angolo c’è più luce.
– Mi lasci prendere gli appunti dalla borsa.
Stia comodo gliela faccio portare da Enea. Enea porta la borsa del professore..
L’ho lasciata sulla panca nell’anticamera, glielo dica che è lì.
– È sulla panca nell’anticamera.
Fuori dalla finestra non vi era altro che nebbia e la sagoma sfocata di un ramoscello dell’olmo con poche foglioline che arrivavano quasi a toccare il vetro.
– L’ultima volta c’era un grande albero qui davanti, signor Boi, o ricordo male?
– È ancora lì.
– Ah si?
– Eh si, è ancora lì.
– Ahaha.. che stupido che sono! È vero, s’intravedono le foglioline. Che carine, sembrano disegnate.
– Eccole la borsa, professore. Le importa se mi accendo una sigaretta?
– Faccia pure, signor Boi, questa è casa sua. Anche se dopo questa lunga degenza…
– Già, dimenticavo. Mi scusi per l’indelicatezza.
– Ma no ma no faccia pure, la prego, se l’accenda, se l’accenda…
– E lei beva dell’acqua, professore.
– Non faccia caso a me.
– Beva un bicchiere d’acqua. Glielo verso.
– Come?
– Per la tosse dico. Ecco, beva.
– Già, questa tosse! Mi era passata da qualche giorno…
– Dev’essere stata la mia sigaretta.
– Ma non l’ha ancora neppure accesa!
– La suggestione della sigaretta accesa, allora.
– È vero! Che stupido che sono, ha ragione… la suggestione può far sembrare già accadute cose che… To’ non ho portato i miei appunti! Come può essere accaduto? Non ci sto più con la testa, gliel’ho detto che questa operazione mi ha proprio sconvolto!
– Poco male. Possiamo fare anche senza. Credo di ricordare dov’ero giunto.
– Ah si? Bene, allora, perché io non ricordo proprio.
– Ha da scrivere?
– Come?
– I suoi appunti. Ha carta e penna?
– Si. Ho uno due tre quattro cinque sei quaderni vuoti.
– Bene allora dico a Enea di non disturbarci per un’oretta. Enea chiudi la porta e non disturbarci per un ora!
Fuori dalla finestra aveva preso a splendere il sole sui campi oltre l’ultima siepe del giardino. I due però non potevano saperlo. Dell’olmo si era cancellato pure il ramoscello mentre l’uno raccontava e l’altro prendeva appunti.
– Mi segue, professore? Parlo da mezz’ora e lei non l’ho ancora vista mettere penna al taccuino.
Ha ragione ma non so decidermi su quale usare, se il verde, il rosso, il ciano o l’arancione. Il nero no, ce già quell’altro che è nero, quello che ho dimenticato. Comunque la sto ascoltando attentamente e prendo appunti nella mia testa.
– Usi l’arancione, se posso dirle il mio pensiero, si distingue maggiormente da quell’altro. Le sarà più facile non confondersi quando li terrà insieme sulla scrivania.
– Già, ha ragione pure questa volta signor Boi. Mi toccherà perdere il tempo ad integrarli questo e l’altro. Mannaggia a me e quando l’ho dimenticato. È sempre meglio fare tutto difilato. Bisogna essere molto organizzati. Soprattutto se vuoi scrivere la storia di un romanzo non puoi tenere gli appunti sparpagliati, devi dargli una struttura dall’inizio. E già.
– È per questo che non ho mai scritto. A me piace parlare, semmai. Raccontare a voce, deviare dal tema del discorso dove lo si desidera e dare l’accento giusto alle parole che la punteggiatura lascia troppo adito alle interpretazioni del lettore. Io non mi ci applico.
– Allora che faccio? Lei che farebbe? Che ne dice se per oggi mi limito ad ascoltarla senza prendere appunti? Potrei memorizzare e poi, una volta a casa, scriverle sull’agenda nera, che ne pensa?
– Può essere un’idea. Io non ci riuscirei però, la mia memoria è come quella nebbia. Cancella quasi tutto per un lungo periodo, poi i ricordi riaffiorano spontanei a loro piacimento, all’improvviso, come quel ramoscello d’olmo e allo stesso modo svaniscono. Se lei ne è capace, però, allora faccia così.
– Si farò così, continuerò ad ascoltarla senza prendere appunti, per oggi.
Il signor Boi versò l’acqua in due bicchieri. Uno lo diede al professore, dall’altro bevve appena un sorso prima di riprendere il racconto. Nel mentre Del Castello notava i decori della porta a doppia anta, in cui vedeva due soli che abbracciavano due lune, e poco più in là su un pannello dipinto a tempera incastonato tra gli stucchi sul camino vide due delfini che inseguivano un’orca. O almeno così gli sembrava. Nel frattempo Boi raccontava:
– La mattina dopo chiamò incessantemente. Il telefono squillò almeno venti volte (…)
CAPITOLO III
Domenica 10 Marzo 2024
* * *
“(…) Il telefono squillò almeno venti volte. Tra le sette e trenta e le nove del mattino. Non risposi ma ero certo che fosse lui. Qualcosa di piuttosto serio doveva essere accaduto dalla nostra ultima conversazione. Pensai che probabilmente aveva anche bisogno del mio aiuto. Anzi pensai che certamente doveva essere così. E che nella…”
Ma, un attimo… ora che mi ricordo… prima di continuare ho una cosetta da mettere in chiaro. Mi sono giunte all’orecchio le lamentele di certi lettori, per lo stile della prosa che ho fin qui usato. Viene ritenuta da qualcuno di questi decerebrati mangia-sushi che s’annidano tra voi, una prosa desueta, antica, troppo antica; arcaica. E dunque, per non creare problemi al diciamo-così-editore col suo pubblico, da qui in poi adotterò un linguaggio più moderno. O cercherò di farlo, almeno. Cosa che, avendo vent’anni (22 per la precisione), non dovrebbe risultarmi così difficile, direte voi. Bé, io non ci scommetterei troppo ma prometto di dare tutto me stesso alla causa. Mi perdonerete, però, se non infarcirò il testo di esotismi. Almeno questo concedetemelo.
E gia’ che ci siamo, almeno per il momento, mettiamo da parte pure la conversazione tra Boi e il professore che ha una prosa inadatta. Vediamo… andiamo a pagina 28 che ha un titolo intrigante L’elefante del mondo. Vi si legge:
“Nessuno si ricorda più di lui ma un giorno di molti anni fa un ragazzo dell’India giunse in paese e vi si stabilì. …”
Macché ragazzo d’India. Piuttosto vi racconto una storia attuale, invece. Una storia vissuta in prima persona, poco più d’una settimana fa.
Dovete sapere che quando non mi trovate qui in casa dello zio a contrastare con Boi e Del Castello, Enea e l’indiano (e ci mancava solo l’indiano..), mi ritrovereste – se ve ne dessi le coordinate – in posti normali, che conoscete e frequentate anche voi, a vivere una vita normale, quella d’un ventenne d’oggi. Certo, io sono sprovvisto di tatuaggi, non mangio sushi e non gioco alla play o come si chiama, ma per il resto la vita la conduco più o meno come voi. Ho tanti amici come voi, purtroppo. Gente che fa cose strane, per lo più, cose a cui preferisco non pensare, per lo più. Ma è anche gente a cui, malgrado tutto, voglio una certa dose di bene. Li tollero per lo più, ma ci sono delle volte in cui sono persino felice che siano parte delle mie giornate. Mi divertono e anche molto. Mi piace osservarli mentre fanno le loro cose strane.
Uno di questi miei amichetti decerebrati trangugiatori di sushi, di recente è venuto a mancare, ahinoi (senza punto esclamativo!). Essendo quello che per convenzione dovrei definire “il mio miglior amico”, il padre ha voluto che andassi con lui all’obitorio. Per sostenerlo, immagino. E mentre guardavamo quella pellaccia tesa come un tamburo, verde e ricoperta di serpi alate e ideogrammi orientali che probabilmente dicono cose quantomeno sconce, quello (il padre) mi disse, tra le tante idiozie che si fece uscire dalla bocca, una roba da premio oscar: che essendo io stato come un fratello per il figlio, per traslazione sono come un figlio per lui e per la sua povera moglie rincoglionita. Cosa che per fortuna non m’è capitata in sorte. Cosa che non è e mai sara’. Orfano sono nato e orfano resterò per sempre. E infatti pensai “Non credere che adesso che quel coglione di tuo figlio non c’è più, sarò io il tuo sostegno. Non credere di poter fare di me un sostituto gingillo. Da oggi non mi vedrai più, vecchio schifoso”, mentre quello mi appoggiava una mano sulla spalla e iniziava la manfrina del pianto a dirotto.
Come era stecchito il mio amico? Avvelenato. Avvelenato da chi? Da se stesso. Aveva fatto tutto da solo. Perché? Bè, perché era un ragazzo di oggi. Un idiota che crede (cioè credeva) nella scienza. Qualsiasi cazzata dicesse quello storto sulla sedia a rotelle, per lui era oro colato. Quello era lo zeus del suo panteon.
Vi risparmio i dettagli pietosi dei fatti che hanno messo fine alle sue miserie terrene. Vi dico soltanto che s’era messo in testa d’essere un genio dell’arte culinaria. E s’era messo perciò a sperimentare cose indicibili fondendo antiche ricette con soluzioni alchemiche mutuate dai libri di cui faceva incetta su internet. Una vera mania. E prova oggi e prova domani ci ha lasciato le penne dopo tre mesi d’ospedale.
La passione gli era venuta per via di quel film in cui quei quattro si chiudono in casa e mangiano fino a scoppiare. Io glielo avevo fatto più volte presente che a fare come quelli avrebbe sarebbe finito pure lui come quelli. Ma lui mi rideva in faccia e mi diceva “testina”. Chissa’ se adesso l’ha capito chi era la testina tra i due?!
Era un mio amico, si. Gli volevo bene? Si, ma era soprattutto un coglione. E non credo proprio che sentirò troppo la sua mancanza. E che era un coglione l’avevo capito dal primo momento, il giorno che è arrivato fresco e pettinato come stesse andando a una festa. Ma era pure l’unico di tutto il battaglione che mi faceva ridere e l’unico con cui potevo parlare di certe cose senza rischiare ogni volta la vita. E si, perché tutti gli altri avevano i nervi a fior di pelle. Era un battaglione di gente nervosa, irascibile. Forse era la guerra a fargli quell’effetto. Tutta la santa giornata spari, cannonate e tutte quelle bombe che piovevano dappertutto. E i quei lamenti continui dei feriti e i quei cadaveri ammucchiati fare la muffa e infestare l’ambiente d’un puzzo nauseabondo. E poi i mutilati che se ne andavano zonzo con la sigaretta attaccata al labbro inferiose e i loro moncherini aspettando che quel pazzo del maggiore si decidesse a rimandarli a casa. Insomma in effetti qualche motivo per essere nervosi, dopotutto, ce l’avevano quei poveretti. Io no, a me le cose andavano benone pure sotto le granate. Alla vita del soldato c’ero abituato. Lo zio ci aveva cresciuti così. La paura non era nel mio vocabolario. Per quanto riguarda il mio amico, invece, non saprei perchè non fosse nervoso come gli altri. Forse era troppo stupido per rendersi conto. Non saprei. Fatto sta che ce la passavamo un gran bene, noi due. E a differenza di moltissimi altri a noi non toccò di morire ne di rimanere menomati perché si può dire che avemmo fortuna. Ma una fortuna sfacciata, in effetti. Specialmente quella volta che ci ritrovammo io e lui i soli ancora in piedi a correre avanti e indietro come in un cartone animato, sotto il fuoco incrociato in una spianata a valle tra due monti. E nessuno riuscì a centrarci, né il nemico, né quelli dei nostri a cui stavamo sui coglioni, che erano tanti e che quando alla fine ci videro rientrare in trincea fecero delle facce di disgusto e ci sputarono pure addosso.
Comunque alla fine tornammo a casa pure noi. Illesi, a differenza del più degli altri. E quell’esperienza della guerra sommata alla vicinanza delle nostre abitazioni ci condannarono a un’amicizia che altrimenti non sarebbe mai nata. Ciò avveniva quattro anni fa, quando lo zio era morto da pochi mesi e i miei cugini erano stati sgombrati. Perché lo zio era pieno di debiti e lo stato s’era preso la casa e tutto. Degli altri cugini so poco o nulla, ma Agnese vive presso una famiglia dietro l’angolo dalla mia tana.
Tornando al mio amico defunto, la cosa non finì mica all’obitorio, come m’ero ripromesso. No. Perché ho un cuore troppo tenero che mi batte in petto e non me la sono sentita di abbandonare quei due poveretti dei genitori. Quindi m’è toccata pure la camera ardente, con la salma esposta come in un museo delle cere con tutta quella gente vecchia e grassa oppure giovane e grassa a imbrattargli il colletto di lacrime. Straziante non per il fatto in se d’una giovane vita spezzata dall’idiozia ma per il corollario che vi risparmio.
E poi, finalmente il funerale che fu tutto un teatrino.
CAPITOLO IV
Domenica 17 Marzo 2024
* * *
Ed ecco che mi devo sorbire un’altra lagna. Questa volta voi non c’entrate. È il diciamo-così-editore che mi si viene a lamentare stavolta, e non per la prosa ma per il contenuto, quindi la cosa si fa incresciosa, sconfinando in ambienti censori. I punti al vaglio, comunque, sono due. Il primo è l’essermi rivolto a voi in forma diretta che a quanto pare non si fa, perché dice che non si deve mai creare un ponte coi lettori. Non sono d’accordo ma… ingoio il rospo e educatamente ascolto il secondo punto che sembra tormentarlo. Questo riguarda il linguaggio troppo colorito. “Scurrile” l’ha definito. Pure qui, ingoio e sorvolo, perché in certe discussioni a me viene la noia al solo pensare di impelagarmici. E comunque il suo discorso fa più d’una grinza. Per iniziare non è logico. Non si capisce, infatti, chi avrebbe potuto lamentarsi di qualcosa che non ha mai letto dato che non è mai stato pubblicato. E poi dov’è finito il suo tanto decantato impegno da editore libero?
Ma forse non c’è malizia nel suo agire, forse semplicemente anche lui è scarso di comprendonio.
Avrei potuto spiegarglielo che voi non esistete se non che in queste righe; che siete soltanto una figura retorica che mi sono inventato per tirarmi fuori dal pantano in cui m’ero infilato con la prosa vetusta dei primi due capitoli. Stavo per farlo ma poi ho desistito. Ho pensato che, lento di comprendonio come è, mi ci sarebbero volute due ore almeno per farglielo capire, e allora… ho lascito perdere. L’ho lasciato al suo sfogo mentre mi canticchiavo in testa un ritornello che mi canticchio in testa quando non voglio ascoltare qualcosa senza darlo a vedere. Chiaramente non posso farvelo ascoltare per iscritto ma, sappiate che ha un particolare tempo che mentre lo ascolti ti fa apparire attento al discorso che è in svolgemento. Chi t’è di fronte, insomma, pensa che tu stia seguendo il suo ragionamento, o racconto che sia. E ha funzionato pure con lui.
M’ha fatto la sua ramanzina, m’ha finito tutto il caffè ed è andato via con fare da grand’uomo, che nemmeno saranno cinque minuti.
E adesso mi ritrovo con le campane in testa e senza caffè. E per di più i bar giusto oggi sono chiusi per non so quale motivo. Per uno sciopero, ho sentito, ma mi pare esagerato che scioperino pure i bar. Non avrebbe senso. La gente farebbe colazione a casa. Tutti abbiamo una caffettiera, o no?. Potrebbe avere senso soltanto se si mettessero d’accordo coi generi alimentari. Che non vendano più caffè per un mese. Allora forse si, lo sciopero dei bar un senso potrebbe avercelo.
Ciò detto, andiamo a noi. E a questo punto, però, ho un dubbio: dovrei riprendere da Boi e Del Castello oppure dal funerale del mio amico? Mica facile da sciogliere come dubbio!
E allora facciamo così: m’avvio verso casa dello zio e nel mentre ci riflettiamo su. Magari riesco anche a rimediare un caffè.
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Un bar alla fine l’ho trovato, per fortuna, e dio benedica i crumiri, altroché! Eh si perché la mattina senza caffè io non ci so stare. Non carburo. La stessa cosa, sono certo, succede anche a molti di voi quindi so che molti di voi mi capiranno.
Dal crumiro ci sono finito seguendo una fila di mezzi addormentati col giornale ripiegato sotto l’ascella. L’atmosfera era da bisca clandestina, chiaramente. Saracinesca a mezz’aria e ci mancava poco che ti chiedessero la parola d’ordine per avvicinarti al bancone. Il tutto in un ambiente immerso in un brusio soffuso da carbonari all’erta. Il caffè, poi, non era neanche un granché, ma era la caffeina che m’interessava, non l’aroma, e quindi va bene così.
E ora eccomi, finalmente, qui a casa dello zio in cui da qualche giorno vigono regole nuove e c’è un’aria plumbea di mestizia sovietica. Oggi, poi, ancora peggio. Al cancello mi sono trovato davanti uno sgherro armato con faccia truce e probabile afasia. Un armadio che non spiccica una parola ma riesce comunque a farti perdere un’ora del tuo tempo preziosissimo.
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Nel frattempo ho deciso di riprendere dal funerale. Ci ho riflettuto sull’autobus mentre guardavo il paesaggio che, a proposito, ho notato si sta smagrendo del rigoglio d’un tempo. Tristezza pure questo. Comunque ho pensato così, che è meglio riprendere dal funerale per continuare a delineare i tratti del nostro eroe – che potrei essere io come non esserlo. A voi la decisione – altrimenti di questa storia non ne venite a capo. E quindi riprendo dal funerale perché lì è successa una cosa piuttosto importante. L’entrata in scena d’una giovane donna che fara’ breccia nel suo cuore, cioè nel mio se preferite. Ma andiamo al sodo.
Ricopio quello che ho scritto sull’autobus:
IL FUNERALE
Dopo un’ora di sermone per bocca a becco di tartaruga d’una specie di prete con voce di condor che è stata durissima non ridere, ci siamo messi in spalla il sarcofago e siamo andati a depositarlo in una buca che avevano appena finito di scavare a sul retro della chiesa. Il padre del mio amico mi ha tenuto stretto a sé per tutta la sfilata delle condoglianze. Me a un lato, la moglie all’altro come fossimo una famiglia noi tre. Sono stato al gioco solo perché la commedia era alle ultime battute. Ancora pochi minuti ed era tutto finito, anche se il codazzo degli addolorati, in realta’, era piuttosto lungo. A occhio e croce una ventina di metri, almeno. E allora, dal di qua delle mie lenti nere da aviere mi sono messo a scandagliare i dintorni finché ho scovato una giovane che sistemava dei fiori su una tomba che aveva due vecchie avvinghiate in preghiera. Sembrava proprio una bella squinzia e mi sono messo a fantasticarci sopra. Poi ho capito che doveva avermi notato pure lei, da come si è messa a sventolare il bordo della gonna per farsi aria sul viso. Così facendo mi stava mostrando le cosce e non poteva non saperlo. E ho capito pure che mi stava ammirando la medaglia che il padre del mio amico m’aveva costretto a indossare per fare bella figura. E pure lui s’era appuntata sul petto quella figlio defunto. Due belle patacche al valore che ci avevano conferite, con cerimonia e fanfara e tutto, forse per quella volta che avevamo riportato il culo in trincea, o altrimenti non saprei dire, non ci fu mai spiegato nei dettagli. Comunque era una medaglia al valore militare quella che avevo al petto, roba da eroi e mi misi a sfavillarla al sole per impressionarla di più. Si capiva che era in estasi epica da come si sfiorava i seni mentre le due vecchie genuflesse continuavano i loro lamenti. Avrei provato ad avvicinarla a cosa finita.
Mancavano gli ultimi quattro cinque abbracci degli inconsolabili quando dovemmo andare a raccogliere una vecchia zia che era finita nella buca, abbracciata alla bara. Cosa piuttosto lunga perché il tacco le si era incagliato nella maniglia e ciò ha richiesto un po’ di lavorio. Io nel frattempo tenevo d’occhio la squinzia che sembrava aver finito le sue faccende e le vecchie s’erano gia’ avviate verso l’uscita. Lei però non schiodava e mi guardava di sottocchio fingendo altri pensieri. E per prender tempo s’è messa a lucidare il simulacro di marmo con le fattezze d’angelo, custode della tomba. Le ali piuma per piuma, e della corona di lauro foglia per foglia, e le ciocche pure una per una finché fu richiamata e dovette seguire le due comari. Non prima, però di gettare un’ultima occhiata alla patacca mentre gliela facevo risplendere. Poi mi ha guardato con rassegnazione, ha fatto spallucce ed è corsa via.
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Peccato, non era una gran bellezza, devo ammetterlo, ma m’aveva fatto battere forte il cuore. Una bellezza travestita, la sua, da intenditori. Un po’ storta di schiena e denti a ventaglio, è vero, ma non riesco a smettere di pensarla. La vasca da bagno è ormai il nostro giaciglio d’amore, ma lei non lo sa ancora. È il liquido amniotico delle nostre copulazioni. Ne esco sempre frastornato, da quel giorno, con un vuoto nello stomaco e un senso di colpa che non mi spiego. Mi sto rovinando. Ero un ragazzo puro che non pensava a queste cose prima di incontrare lei. M’ha fatto un sortilegio, probabilmente, ma non m’importa, ne sono innamorato. È come se la conoscessi da sempre. Eppure le ho parlato appena. Solo due parole, nel caffè del camposanto. Uno scambio di convenevoli e niente più. Parole brevi e furtive simili a mugolii, con gli occhi bassi, tranne che per un secondo e tanto è bastato a perdermi nei suoi occhietti languidi e piccoli. Minuscoli bottoncini che appuntano due guanciotte belle paffute. Il cuore mi si è riempito di un sentimento sconosciuto e pure il membro ha preso a pulsarmi come mai prima.
Che sensazione meravigliosa è l’innamoramento!
Devo ritrovarla. Devo sapere tutto di lei. Amarla. E scrivere della nostra storia avversata da quelle due vecchie arpie. E certamente pure da quegli altri due che si sono convinti d’essere i miei genitori. Anche loro certamente disapproveranno. D’altronde però la letteratura è fatta di amori osteggiati. È un genere letterario, mi pare. C’è tutto un fiorire di romanzi imperniati su questo, no? Passioni, pulsioni, eros, drammi che si susseguono… Ecco, sono certo che questa mia storia d’amore, innovera’ il genere, anzi ne creera’ uno nuovo. Devo prima di tutto ritrovarla, però. Dopodiché il mio talento fara’ il resto. Perché ormai è chiaro lampante che nello scrivere ho un talento adamantino. Come spiegarsi sennò l’interesse del mio editore, che è un grande editore con una esperienza trentennale di prim’ordine, non dimentichiamolo? (…CONTINUA)
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