Con grande piacere riproponiamo un bell’articolo di Alli Traina sul poeta, traduttore e slavista Angelo Maria Ripellino (Palermo 1923 – Roma 1978), già pubblicato nel 2014 sulle pagine del perento Archivio Flavio Beninati e nel primo numero del periodico di approfondimenti I Quaderni di Eccegrammi. Buona lettura!
Viaggio “in groppa alla scomoda schiena dell’incantevole mondo”
di Alli Traina
Con Angelo Maria Ripellino ci siamo conosciuti tardi. O forse al momento giusto. Quel giorno stavo cercando la mia Musa. Non c’è nulla che riesca a concedermi la giusta predisposizione d’animo per scrivere come una buona poesia o della buona musica. Per ispirarmi frugo tra le parole e le immagini di scrittori, poeti, musicisti, fotografi. Indipendentemente dal loro significato complessivo, certi frammenti hanno la capacità di fare nascere in me idee e stati d’animo: quelli necessari per dispormi bene a scrivere. Dovevo raccontare di Ballarò, il celebre mercato palermitano e cercavo la mia Musa in biblioteca, tra migliaia di libri. La cercavo come si cerca un incontro quando si è soli, tra mille possibili incontri. Come si cerca uno sguardo di sera, tra mille sconosciuti.
Senza sapere cosa stessi cercando veramente, sperando di trovare in un gesto in una parola il significato stesso del mio cercare. «Che cos’è che mi manca? Lo troverò mai questo qualcosa che non so?» mi ripeto ogni volta che mi immergo nella ricerca di significati – i miei, quelli delle cose che vorrei raccontare – pensando ai versi di Sylvia Plath. Ma altri versi mi sono venuti in soccorso questa volta. Ho sfogliato libri di racconti e guide, saggi e romanzi. Poi per caso ho incontrato una raccolta di versi di Ripellino, Lo splendido violino verde (Einaudi, 1976), e mi sono imbattuta in una poesia, la numero 82:
“C’era un paese che conteneva tutti i paesi del mondo, /e nel paese un villaggio che racchiudeva tutti i villaggi del paese, /e nel villaggio una via che riuniva tutte le vie del villaggio, / e in questa via purulenta una casa che comprendeva tutte le case, / e nella casa una povera stanza, e nella stanza un’enorme sedia, /
e sulla sedia, sparuto, un minuscolo omino in bombetta,/ e questo omino era tutti gli uomini di tutti i paesi,/ e questo omino rideva, rideva sino alle lacrime”.
Così ho scritto il mio capitolo, grazie al poeta che avevo appena conosciuto. Pensando a Ballarò come un mercato che contiene tutti i pae s i del mondo, fatto di strade che contengono tutti i volti del mondo. Il concetto era un bel po’ diverso, ma questo – io credo – è il mistero meraviglioso che definisce i versi: tra
le parole, lungo i loro vuoti, ognuno può immaginare tutti i significati che vuole e a sua volta generare qualcosa di diverso.
Ho conosciuto Angelo Maria Ripellino, dunque, un paio di anni fa, nella maniera in cui si conoscono i poeti. Attraverso i suoi versi. I poeti, se toccano le corde giuste, possono davvero diventare i tuoi migliori amici, i tuoi consiglieri, gli appigli nei giorni in cui non sai più dove sbattere la testa. Così ho comprato i suoi libri e, leggendo i suoi versi, ho scoperto la sua storia: «di libro in libro le mie liriche, costituiscono un diario nel quale la storia privata si intreccia con i fatti del mondo». Ripellino era nato a Palermo, la mia città, nel 1923. L’aveva lasciata presto, ma sempre nelle sue poesie tornava a farle visita. «Nella barocca e ferale Sicilia nativa affondano le mie radici», nello sradicamento «dall’isola amara, irrorata di luce e di agrumi» sta «la sorgente di tutti i miei mali, della mia vita in bilico».
E allora il poeta la lega con una fune immaginaria all’altra città che ama eternamente: Praga. Già da studente alla facoltà di Lettere di Roma si era innamorato del continente slavo. La letteratura slava era diventa la sua famiglia, Praga la sua seconda casa. È qui che incontra sua moglie, Ela Hlochová, con cui collaborerà sempre nella traduzione e nella scoperta di scrittori cecoslovacchi. Il suo libro, Praga magica, pub- blicato nel 1973, mi ha svelato una maniera nuo- va di raccontare le città. Un libro scritto «con pentimenti continui, conl’infinito rimorso di non conoscere tutto, di non stringere tutto, perché una città, anche se assunta a scenario di una flânerie innamorata, è una dannata, sfuggente, complicatissima cosa». Un libro in cui realtà e invenzione si intrecciano e il passato ritorna sempre nel presente perché, come dice il poeta, «non esistono cose lontane, tutto è racchiuso nel globo degli occhi».
Ripellino fu anche un grande slavista, il primo a portare in Italia le poesie di Pasternak, uno dei migliori traduttori di Majakovskij. E non solo: critico teatrale, saggista, giornalista, professore universitario. Ma in ogni suo lavoro, in ogni suo scritto – che fosse un saggio o un articolo, una critica teatrale o una lezione – c’era la poesia. Ripellino rivendicava il fatto di essere poeta. I suoi versi sono come un palcoscenico sul quale ogni volta si mischiano la musica, il balletto, il teatro soprattutto. Si inizia a leggere, il sipario si apre ed entrano in scena i suoi personaggi: «pagliacci, venditori di oroscopi, garzoni fornai, menestrelli, pupazzi di trucioli, larve febbrili ed altri campioni di un’arca che va alla banda». In sottofondo una perfetta sinfonia, suonata da un violino «anche se storto, se guercio e perciò chagalliano», mentre il poeta avanza come un funambolo «in groppa alla scomoda schiena dell’incantevole mondo». Avanza in «un’eterna altalena tra l’ebbrezza e il malore». Perché oltre alle sue passioni è la sua «malsanìa» – ammalato fin da giovanissimo di tubercolosi – a essere fondamento per la sua crescita di scrittore, essenziale per la sua vocazione.
La morte, arrivata troppo presto, nel 1978, è immaginata continuamente. Il poeta la elude travestendosi con «stracci di versi», la affronta immaginando di portare a Dio «una copia del mio ultimo libro,/ sebbene io sappia che più gradirebbe/ un canestro di fragole di Nemi».
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